La storia di G - Un donatore di 18 mesi
Sono passati solo sei anni da quel lontano 14 gennaio 2002 quando, in un normale pomeriggio invernale, ci fu diagnosticata la terribile malattia che aveva colpito il mio piccolo G.: "leucemia linfoblastica acuta". Se sei così forte da superare la disperazione iniziale, non lo sarai abbastanza per poter rispondere a tutte le domande che affollano la tua mente. Da quelle più pratiche: "cosa fare?", "dove andare?" a quelle più personali che lasciano trasparire il tuo cammino di fede: "perché mio figlio", " quale è il senso di questo avvenimento?".
Mio marito ed io, nella nostra ingenuità e immaturità di genitori appena trentenni, egoisticamente non volevamo che il nostro bambino fosse ricoverato in un ospedale pediatrico confrontandosi quotidianamente con altri bambini che lo avrebbero messo davanti alla realtà di quella malattia.
La decisione di rimanere all'ospedale "Moscati" di Taranto non è stata semplice perché dal parente più stretto al salumiere sotto casa, tutti ti elargivano consigli gratuiti su esperienze personali, dove è categorica la scelta di scappare dalla Puglia. Cercando di rimanere lucidi abbiamo guardato nostro figlio e il modo in cui era stato accolto nel reparto ematologia guidato dal dott. Patrizio Mazza: si sentiva un principe, coccolato da medici e infermieri. E se da un lato dovevi affrontare problemi pratici come la mancanza di aghi per bambini, vedere G. sorridere nonostante tutto ti faceva sperare che quella scelta "esclusivamente istintiva" fosse quella giusta.
Due anni di protocollo sono lunghi e duri da passare ma non siamo mai stati lasciati soli. Uno dei problemi principali da affrontare era la frequenza scolastica. Qui entra in gioco l'importantissimo supporto pratico e psicologico offerto ai piccoli pazienti dalle educatrici che aderivano al progetto di interventi per la tutela dei diritti del bambino malato a cura dell' Arciragazzi di Taranto in collaborazione con 1' AIL. Per due anni G. è rimasto in contatto con la sua classe e le sue maestre e ha svolto i suoi compiti compatibilmente con i problemi conseguenti alla chemio.
Nel frattempo tante cose sono cambiate: da un lato la caparbietà del primario e della presidente dell' AIL di Taranto Paola D'Andria hanno permesso al reparto di crescere, diventando, secondo il mio parere, un reparto d'eccellenza, soprattutto guardando alla realtà in cui la sanità pugliese si muove; dall'altro la scelta ponderata, suggerita anche dai medici, di avere un altro bambino è stata fortunatissima perché, se è vero che G. migliorava ogni giorno, è pur vero che non era disponibile un midollo compatibile al 100% con il suo.
Il 22 maggio del 2003 il Signore ci ha donato V., un bellissimo bambino con un midollo perfettamente compatibile. E quando parlo di dono mi riferisco a1 fatto che la possibilità di avere la compatibilità tra consanguinei è di 1 su 4 mentre tra estranei è di 1 su 100.000: un vero terno al lotto che si è rivelato un miracolo quando a causa di una recidiva, il 27 gennaio del 2005, mio figlio ha affrontato l'ostacolo più duro: il trapianto.
Ora V. ha quattro anni. Sa che ha contribuito alla guarigione del fratello, anche se non comprende quello che è successo e ci chiede: “Ma come ho fatto a donare il midollo a G.? E… quando me lo restituisce?”
Se per la sua esecuzione il trapianto può sembrare una cosa semplice, non lo è stato nella sua evoluzione. Il suo fisico debilitato dalla radio ci ha fatto temere il peggio. Non voglio entrare nei particolari di quei due mesi di ricovero molto dolorosi. Voglio solo sottolineare che, dimesso dall’ospedale debilitato e debole tanto da perdere l'uso delle gambe per un anno, oggi è un giovanotto di dodici anni, testimone di una esperienza straordinaria, una esperienza che ci ha fatto crescere tutti un po' più in fretta.
Il mio pensiero va a tanti amici o bambini che nel corso di questo cammino hanno perso la vita; in particolare il piccolo G. a cui non è bastato avere un fratellino compatibile; il piccolo K. che un donatore non lo ha mai trovato e alla carissima D. che aveva trovato un donatore il quale poi per paura si è rifiutato non lasciandole alternative.
Donare il proprio midollo è un atto di amore poco invasivo: non c’è da avere paura (mio figlio è diventato donatore a 18 mesi!). Non comporta rischi, lo si può fare più volte nel corso della propria vita e lascia un senso di pienezza rendendoci protagonisti positivi in tante storie di dolore.
I. B.
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